Si è consolidata l’idea che l’efficienza coincida con la riduzione dell’incertezza. Si organizza il lavoro affinché ogni attività sia prevedibile. È un modello che ha il suo fondamento nella necessità di garantire coerenza, di ridurre gli errori, di evitare sprechi. Esigenze necessarie, soprattutto in quei contesti dove l’operatività quotidiana si misura in volumi, tempi, ripetizioni. In questo senso, metriche chiare e procedure ben definite. rappresentano strumenti preziosi. Strumenti che funzionano — e funzionano bene — quando si tratta di coordinare processi esecutivi e garantire continuità nelle operazioni. Sempre che si tenga conto del fatto che il tempo del lavoro svolto dalle persone non è uniforme né costante.
Altro problema è quando questa logica viene estesa a ogni ambito dell’organizzazione, fino a investire anche quelle dimensioni del lavoro che richiedono apertura, riflessione e sensibilità contestuale. In nome dell’efficienza si rischia di comprimere la complessità, di irrigidire le prassi, di spingere le persone a muoversi entro margini troppo stretti. E ciò che inizialmente nasce per facilitare l’azione finisce per soffocarla. È noto, a chi osserva da vicino il funzionamento delle organizzazioni, come la crescente disponibilità di tecnologie digitali abbia favorito questa tendenza: ogni attività può essere tracciata, ogni passaggio standardizzato, ogni esito convertito in un indicatore.
Ma il lavoro non si esaurisce nell’esecuzione. Ci sono ambiti in cui serve leggere i contesti, interpretare i segnali, costruire senso insieme agli altri. Quando anche questi spazi vengono colonizzati da metriche rigide e protocolli prescrittivi, si assiste a un progressivo svuotamento dell’iniziativa e a una riduzione del margine per poter agire secondo giudizio. In questi casi, la responsabilità viene redistribuita su sistemi, dashboard, analisi che promettono oggettività ma espropriano le persone del discernimento. La neutralità dei numeri — che viene evocata come garanzia — opera invece come un arbitrio ideologico. Le pratiche così si irrigidiscono in schemi poco permeabili, il tempo quotidiano smette di offrire varchi in cui azzardare ipotesi e l’energia delle persone trova sempre meno appigli per esercitarsi in forme vive e autonome. Non si tratta di scegliere tra struttura e libertà, ma di saper disporre con intelligenza di entrambe, comprendere dove servono regole chiare e dove invece occorrono spazi in cui il pensiero possa muoversi senza vincoli eccessivi. Un’organizzazione che non distingue questi territori, che non riconosce le forme differenti del lavoro, finisce per produrre conformità dove servirebbe visione e intraprendenza.
Foto di Rick Rothenberg su Unsplash