C’è una forma di intelligenza che non appartiene a nessuno in particolare, ma che si genera nella relazione tra i membri di un gruppo quando le condizioni sono favorevoli: la potremmo definire un’abilità propria dei gruppi, emergente, che nessuno possiede da solo e che, pure, nasce dal contributo di ciascuno. Non si tratta di sommare competenze, ma di generare un campo in cui le singole capacità si moltiplicano, si contaminano, si trasformano. È un sapere che prende forma solo dentro una dinamica di scambio reale, dentro un ecosistema fatto di ascolto, fiducia, reciprocità.
In un’organizzazione, questo tipo di intelligenza si manifesta quando le persone possono attingere liberamente al serbatoio di competenze e intuizioni dei colleghi e quando l’ambiente di lavoro favorisce, piuttosto che ostacolare, la circolazione di risorse immateriali: tempo condiviso, disponibilità all’errore, spazi di dialogo e confronto autentico. Chi osserva le dinamiche delle organizzazioni sa che nessuna grande trasformazione, nessuna innovazione duratura, nessun risultato davvero strategico si ottiene senza il contributo di un gruppo coeso. Molti casi di studio e ricerche condotte nelle imprese, evidenziano che la costante che permette a molte imprese di avere successo non è il carisma del singolo, ma la qualità della rete relazionale che sostiene e moltiplica il valore delle azioni.
Decade il mito del leader solitario che decide, dirige e agisce in totale autonomia. Quel modello, figlio di una cultura del potere verticistico, costruita sull’accentramento dell’informazione e sul controllo, mostra oggi tutte le sue fragilità. Il ruolo del manager è cambiato radicalmente insieme al contesto in cui si trova ad agire: non è più colui che risolve, ma colui che mette in condizione gli altri di risolvere; non è più il centro del sapere, ma l’attivatore di connessioni; non è più il gestore dei flussi, ma il costruttore del contesto virtuoso in cui questo avvengono.
Il nuovo leader è un team builder: un artigiano della fiducia, un progettista di alleanze, un promotore di senso condiviso. Il suo compito è favorire la metamorfosi dei collaboratori da esecutori isolati a membri attivi di una comunità professionale, capace di cooperare, apprendere insieme e decidere in modo distribuito. In questo processo, l’umiltà che accompagna l’apprendimento di nuove idee diventa una competenza strategica: non come rinuncia allo slancio individuale, ma come scelta di contribuire alla costruzione di identità che si reggono sulla reciprocità. Sospendere il proprio protagonismo significa permettere all’organizzazione di diventare un luogo generativo, in cui si smette di funzionare e si comincia a vivere il lavoro come esperienza condivisa di intelligenze in movimento.
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