C’è un’immagine che attraversa una parte della riflessione filosofica e psicologica, quella dell’essere umano che agisce come fosse un automa, mosso da meccanismi interiori che gli sfuggono, da pressioni ambientali che interpreta come scelte, da abitudini che scambia per identità. Già Spinoza, nel XVII secolo, ci metteva in guardia dall’illusione della libertà: gli uomini si credono liberi per il solo fatto che sono consapevoli delle proprie azioni, ma sono ignari delle cause che le determinano. Molta della filosofia critica ha approfondito questo punto: l’individuo non è padrone in casa propria. La psicoanalisi freudiana, le scienze cognitive contemporanee, l’antropologia culturale hanno descritto in dettaglio quanto le nostre scelte siano il risultato di automatismi appresi, dispositivi simbolici, economie affettive che ci precedono.

Il capitalismo contemporaneo ha saputo far tesoro di questi automatismi. Molte forme di valorizzazione del capitale, delle persone, della tecnologia non combattono l’inconsapevolezza, ma la organizzano, nutrendosi in gran parte di ciò che sfugge alla coscienza riflessiva: impulsi, bisogni indotti, desideri mal formati, ansie di prestazione, identificazioni totalizzanti con ruoli e status. In questo quadro, la capacità di adattamento diventa una qualità ambita e richiesta.

La psicologia del lavoro ci mostra quanto lo sviluppo di queste derive sia problematico: aumentano il burnout, le sindromi depressive legate al lavoro, il senso di estraneità nei confronti delle proprie mansioni. Partendo da queste considerazioni potremmo dedurre che lavoriamo tanto, ma agiamo poco, produciamo senza decidere, senza sapere se quello che facciamo sia in fondo una scelta che va nella direzione che crediamo di perseguire. In questa contraddizione si radica parte del malessere che affiora nelle analisi del mondo del lavoro e che si concretizza nell’esercizio dell’azione svuotato della volontà, separato dal giudizio, nella partecipazione ridotta a presenza operativa. Si rafforza così un modello di soggettività flessibile ma vuota, pronta a riconfigurarsi a ogni mutamento del contesto, purché non venga chiamata a interrogarsi sulle cause e sulle finalità di ciò che contribuisce a costruire.

Simone Weil scriveva che la libertà non è fare ciò che si vuole, ma sapere ciò che si fa. In questo senso, la libertà è un atto conoscitivo, un esercizio di lucidità, un uscire da modalità automatiche per entrare in uno spazio di interrogazione e trasformazione consapevole. Ma questo spazio è appunto sempre più marginalizzato da logiche organizzative che premiano la rapidità, la prevedibilità, la conformità dei pensieri e delle azioni. In un contesto segnato da dispositivi ingiuntivi che spesso trascurano il benessere personale e collettivo, è urgente interrogarsi su come costruire ambienti culturali, organizzativi e istituzionali in grado di sostenere non solo la produttività, ma anche la consapevolezza e un senso autentico di libertà.

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