Nel lavoro sembra affermarsi una crescente sensazione di scollamento tra il fare e il suo significato. Mentre si moltiplicano strumenti, processi e tecnologie per ottimizzare l’efficienza e migliorare la produttività, si assiste a un indebolimento della tensione verso una finalità che trascenda l’utilità immediata. Il lavoro, oggi, si mostra spesso come un dispositivo performativo svuotato di profondità, privo di quella vocazione generativa che un tempo lo legava, nel vissuto soggettivo, a forme di autorealizzazione, impatto sociale e contributo al bene comune.

Non è tanto il perché facciamo ciò che facciamo la questione rimossa, quanto piuttosto chi diventiamo facendo ciò che facciamo, che tipo di relazione con noi stessi e con il mondo contribuiamo a costruire attraverso le nostre attività professionali, le scelte organizzative, i modelli di leadership, le culture aziendali. L’attenzione, troppo spesso inchiodata alla dimensione prestazionale, sembra incapace di accogliere la profondità trasformativa che ogni attività lavorativa porta con sé, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo.

A ben vedere, ogni organizzazione è una grammatica incarnata del mondo: una struttura di pratiche, narrazioni e affetti che educano chi vi prende parte a un certo modo di stare al mondo. Non si lavora mai soltanto per fare, si lavora per diventare. Quando il lavoro viene ridotto a mero vettore di output, perde la sua capacità di partecipare alla formazione dell’essere umano nella sua interezza. Si produce, si compete, si ottimizza, ma spesso non si comprende cosa, non si trasforma nulla, non si evolve. Il lavoro smette di essere luogo di riflessione e diventa soltanto funzione.

In questa situazione, si palesa un’assenza di orizzonte, una crisi di senso che è frutto di una rimozione sistemica del pensiero critico. Le metriche di impatto si moltiplicano, ma raramente includono ciò che non è immediatamente quantificabile: l’effetto sulle relazioni umane, sull’ambiente di lavoro, sulla cultura organizzativa, sull’immaginario condiviso, sulle possibilità di essere. La razionalità organizzativa dominante, fondata su modelli utilitaristici, tende ad escludere dal campo di visibilità tutto ciò che eccede la performance: la cura, il desiderio, la responsabilità verso noi stessi. Eppure, è proprio in questi territori opachi — spesso esclusi dalle metriche aziendali — che si colloca il nucleo vitale dell’esperienza lavorativa.

Recuperare un orizzonte di senso nel lavoro significa riconoscere che ogni pratica professionale, anche la più apparentemente neutra, partecipa alla tessitura della realtà individuale. Significa tornare a pensare il lavoro come spazio di co-costruzione, come occasione di apprendimento trasformativo, come ambito generativo di soggettività e di legami. Il lavoro può e deve tornare a essere un’esperienza ad alta intensità simbolica e relazionale, in grado di influenzare positivamente il benessere personale e organizzativo, la sostenibilità sociale e la qualità delle relazioni nei contesti professionali.

Senza questa consapevolezza, ogni strategia di benessere, ogni intervento di engagement, ogni policy sul purpose rischia di galleggiare su un terreno inconsistente. È solo riconnettendosi a un orizzonte di senso che lo oltrepassi che il lavoro potrà tornare a essere un’esperienza trasformativa, capace di generare soggettività consapevoli, comunità responsabili, mondi vivibili. 

Foto di Stewart MacLean su Unsplash