Non è vero che dove c’è benessere, si produce di più. E, ancor meno, è vero il contrario. O almeno non sempre. Se ci guardiamo in giro, vediamo che molte aziende ottengono risultati economici eccellenti anche con una pessima organizzazione del lavoro. È una delle grandi ipocrisie del nostro tempo.
Il disagio, il malessere, lo sfruttamento sono vecchi strumenti a disposizione nella cassetta degli attrezzi. Esistono organizzazioni basate su modelli che erodono sistematicamente la salute psicologica e fisica di quelli che ci lavorano, modelli che sono progettati per funzionare grazie al malessere, che fanno leva su ansia, iper-competizione, controllo capillare.
Per fortuna, accanto a queste realtà, ci sono molte aziende che funzionano diversamente, che interpretano il benessere come orizzonte culturale, come pratica quotidiana, come criterio imprescindibile nella progettazione del lavoro. Sono realtà che sanno che star bene è la condizione imprescindibile per costruire senso, fiducia e responsabilità condivisa. E il senso, oggi più che mai, è la risorsa su cui si gioca la tenuta emotiva, etica e produttiva delle organizzazioni. In contesti lavorativi segnati da incertezza e richiesta di adattamento continuo, la capacità di costruire senso condiviso diventa una priorità organizzativa.
La questione centrale non è dimostrare che il benessere conviene sul piano economico, ma di assumere la domanda di benessere come il problema di un valore che eccede e dà forma a quello economico . L’obiettivo, in fondo, è chiarirsi quale organizzazione vogliamo sviluppare e, soprattuto, quale soggettività valorizziamo con la nostra organizzazione del lavoro. Ridurre il benessere a una semplice leva funzionale tradisce questa complessità.
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