C’è una domanda che circola da decenni nei discorsi sul lavoro: perché, nonostante la crescita della capacità produttiva, lavoriamo ancora come fossimo in un’epoca industriale? La tecnologia ha fatto il suo corso. L’intelligenza artificiale, l’automazione, i software collaborativi e gli strumenti di analisi predittiva hanno trasformato radicalmente il lavoro. Eppure, continuiamo a organizzare il tempo come se nulla fosse cambiato

Se il lavoro è sempre più conoscenza, relazione e interpretazione, il tempo lavorativo non può più essere trattato come variabile rigida. Non è più una questione di ore accumulate, ma di intensità e qualità. Oggi, grazie all’evoluzione tecnologica, in un’ora di lavoro si concentra una densità di attività, attenzione e responsabilità che un tempo richiedeva giornate intere. I sistemi digitali, le reti e gli strumenti intelligenti accelerano i processi e moltiplicano gli effetti delle azioni umane: la produttività non si distribuisce più in modo lineare nel tempo, ma si comprime, si addensa.

Allo stesso tempo, questa intensità è resa possibile da un patrimonio invisibile che ci precede: ogni macchina, ogni software, ogni procedura incorpora il sapere accumulato da generazioni di lavoro scientifico e tecnico. Parte del tempo necessario a produrre valore oggi è sedimentato negli strumenti che utilizziamo. In altre parole, la produttività attuale si appoggia su una gigantesca eredità di intelligenza collettiva.

Numerose sperimentazioni recenti dimostrano che ridurre l’orario di lavoro è possibile senza sacrificare la produttività. Anzi, in molti casi migliora il benessere e le performance. Nel Regno Unito, un test su 61 aziende ha mostrato che il 92% ha scelto di mantenere la settimana corta, con aumenti significativi nella soddisfazione dei dipendenti, cali del burnout e nessuna perdita economica. In Islanda, un esperimento durato quattro anni ha coinvolto oltre 2.500 lavoratori pubblici e ha portato a una diffusa revisione dei modelli organizzativi. Anche in Giappone, Belgio, Canada e Nuova Zelanda, sono in corso esperimenti su modelli flessibili o 4-day week, con risultati molto promettenti. 

Il governo spagnolo ha compiuto di recente un significativo progresso: il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera a un disegno di legge che introduce la riduzione dell’orario di lavoro settimanale massimo da 40 a 37,5 ore, garantendo l’integrità della retribuzione.

Ciò che emerge dai dati di queste sperimentazioni è che una produttività sostenibile non si ottiene spremendo il tempo, ma creando contesti che valorizzino attenzione, lucidità e autonomia. Il lavoro non cresce per accumulo, ma per profondità. E la profondità ha bisogno di spazio mentale e rigenerazione. Si tratta di restituire alle persone una parte di quel valore che la tecnologia ha già creato. Ogni volta che un processo viene automatizzato, ogni volta che un algoritmo risolve in un secondo ciò che prima richiedeva ore, si libera tempo. Ma questo tempo invece di essere redistribuito, spesso si trasforma in un altro task, un’altra urgenza, un’altra competenza da valutare, un altro controllo. Le conseguenze sono burnout, insofferenza, disaffezione. Sintomi di un modello che non vuole riconoscere il tempo liberato come risorsa generativa, ma lo risucchia in cicli produttivi infiniti. 

Forse, più che in nuovi modelli organizzativi o in strumenti sempre più performanti, la trasformazione che abbiamo davanti è innanzitutto concettuale. Riguarda il modo in cui pensiamo il tempo, il valore, la presenza. E, in particolare, il legame che li tiene insieme.

In un contesto dove spesso la produttività è associata alla saturazione delle giornate, alla compressione delle pause, all’efficienza senza tregua, viene da chiedersi se non sia il momento di considerare anche un’altra possibilità: che il tempo liberato — non occupato, non colonizzato — possa generare valore in forme nuove.

C’è chi sta iniziando a esplorare un’idea diversa di tempo lavorativo, meno centrata sulla durata e più attenta alla qualità di ciò che avviene. In fondo, i modelli estrattivi che si reggono sulla compressione continua del tempo mostrano segnali di affaticamento. Pur contribuendo ai risultati economici, lo fanno spesso a discapito della sostenibilità sociale, quella che riguarda la motivazione, la salute mentale e relazionale. Non si tratta di trovare risposte immediate, ma forse di iniziare a guardare altrove. E ascoltare con attenzione ciò che, nel tempo sottratto, rischia di andare perduto.

Foto di Morgan Housel su Unsplash